Arriva la medicina rigenerativa!
Da Focus n. 251-2013:
Con un inchiostro di cellule e proteine, le stampanti 3D già realizzano organi interi. E’ questo il futuro dei trapianti?
Silenzio in sala: sul palco c'è Anthony Atala, scienziato visionario, convinto che un giorno molte parti del corpo potranno essere rimpiazzate da altre create su misura per i pazienti, grazie alla medicina rigenerativa. Alla conferenza Ted, parla della carenza di organi per i trapianti e di come le biotecnologie potrebbero risolvere il problema. Mostra i laboratori del suo Wake Forest Institute for Regenerative Medicine, nella Carolina del Nord, e quando il discorso sembra avviarsi alla conclusione alle sue spalle viene mostrata una stampante. La macchina è lì dal mattino e ha continuato a lavorare dietro le quinte anche durante la conferenza. In tutto quel tempo ha stampato un rene, che ora lo scienziato prende e rigira fra le mani. E’ il 3 marzo del 2011. Il pubblico resta a bocca aperta. Certo, si tratta di un prototipo che nella pratica non può salvare nessuno. Ma per fabbricarlo, con un gel fatto delle stesse cellule e proteine che compongono l'organo vero, e di pari dimensioni, ci sono volute solo 7 ore. Tanto basta all'oratore per affermare che il futuro dei trapianti sta anche in quella tecnica. Atala non è il solo a pensarla così. Soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, in laboratori all'avanguardia, si stanno infatti mettendo a punto metodi di stampa 3D per produrre cuori, reni, cartilagine, fegati, orecchie e molto altro. La tecnica è ancora sperimentale, ma progredisce rapidamente e lo scorso anno è stata usata per salvare un bambino.
Sempre più bisogno. Gli investimenti, ingenti soprattutto al di là dell'Oceano, si giustificano con la carenza di organi da trapiantare, destinata ad aggravarsi nei prossimi anni per l'invecchiamento della popolazione. «Nell'ultimo decennio i pazienti che necessitano di un trapianto sono raddoppiati, ma il numero di interventi è aumentato di pochissimo» spiega Atala, che lavora soprattutto sul rene, l'organo più richiesto.
La situazione è critica in tutto il mondo occidentale. In Italia, secondo il Centro Nazionale Trapianti, il numero di donatori è aumentato costantemente nel corso degli anni Novanta, per poi stabilizzarsi a partire dal 2004-2005. Oggi si eseguono circa 2.900 trapianti all'anno, ma le persone in lista d'attesa sono quasi 9.000 e, in media, aspettano l'intervento per 1-2 anni.
Mini-fegati. La stampa tridimensionale, o bioprinting, potrebbe invece fornire in pochi giorni un organo di ricambio perfettamente compatibile e progettato su misura per chi ne ha bisogno. Concettualmente, la tecnica è analoga alla stampa 3D che sta prendendo piede per creare i prodotti più diversi: le macchine capaci di realizzarla traducono un progetto disegnato al computer in un oggetto solido che però, in questo caso, è fatto di materiali biologici. Il processo è in realtà molto complesso da realizzare, perché le strutture da riprodurre sono estremamente sofisticate, e non sono ammesse imprecisioni. L'organo deve ricevere ossigeno e nutrienti in tutte le sue parti, e le cellule - solo il cuore ne ha 5 miliardi - devono stabilire i giusti rapporti fra loro e comportarsi come farebbero quelle originarie. Infine, ciascun tessuto va progettato ad hoc per chi lo riceverà (si parte infatti da Tac e risonanze magnetiche del paziente) e la stampa deve svolgersi in condizioni che non danneggino le componenti biologiche; per questo, di solito, si esegue a 38 gradi C. «Nonostante le difficoltà, il bioprinting potrebbe entrare nella pratica clinica già fra una decina d'anni» dice Luigi Ambrosio, direttore del Dipartimento di Scienze chimiche e tecnologie dei materiali (Dsctm) del Cnr di Roma. I laboratori più avanzati hanno già realizzato prototipi, come il rene mostrato da Atala al suo pubblico. E queste strutture svolgono almeno in parte le funzioni degli organi. Recentemente la Organovo, un'azienda biotecnologica di San Diego, ha realizzato frammenti di fegato che producono le stesse sostanze del loro corrispettivo biologico, come albumina o colesterolo. Presentati lo scorso aprile a un convegno a Boston, sono spessi mezzo millimetro e larghi quattro millimetri, e sono stati prodotti sovrapponendo con una stampante 20 strati di un «inchiostro» contenente epatociti e cellule stellate, i due principali tipi cellulari del fegato, uniti a cellule che compongono le pareti dei vasi sanguigni: queste formano una rete di canali che portano ossigeno e nutrienti. I mini-fegati saranno usati per sperimentare farmaci, ma l'obiettivo finale dell'azienda è ricreare l'organo intero.
250.000 dollari. Il progetto di Stuart Williams, direttore del Cardiovascular Innovation Institute di Louisville (Usa), è ancora più ambizioso: punta a realizzare il cuore, organo simbolo dell'intero settore dei trapianti. Williams ha già ottenuto valvole cardiache, che, impiantate su animali, hanno funzionato bene. Lo scienziato intende stampare separatamente tutte le componenti necessarie (oltre alle valvole, le coronarie e altri vasi sanguigni di calibro più piccolo, il muscolo capace di contrarsi ritmicamente, il sistema elettrico che coordina il battito), assemblando il tutto alla fine. Pensa di potercela fare in 10 anni, e stima che i 250.000 dollari necessari per stampa e intervento chirurgico sarebbero concorrenziali con gli attuali costi di un trapianto cardiaco.
Anche perché, come per tutti i tessuti realizzati con il bioprinting, il paziente non dovrebbe sottoporsi alle costose terapie antirigetto, oggi necessarie affinché l'organo del donatore non sia rifiutato dal suo sistema immunitario. Infatti, le cellule dell’«inchiostro» biologico sono ricavate dallo stesso paziente e fatte moltiplicare in laboratorio prima di essere inserite nella cartuccia della stampante.
Una trachea per Kaiba. Ma se per avere fegati, cuori e reni bisognerà aspettare, la stampa di parti più semplici ha già portato benefici concreti. Il primo paziente salvato con questa tecnica ha due anni, si chiama Kaiba e vive con i genitori e un fratello maggiore nell'Ohio (Usa). Kaiba, la cui vicenda è stata riportata sul New England Journal of Medicine, è nato con una rara malformazione della trachea, che la fa collassare e impedisce ai polmoni di ricevere ossigeno. A pochi mesi di vita, dopo alcune gravi crisi respiratorie, il piccolo giaceva intubato in un letto di ospedale con poche speranze di sopravvivere. I medici decisero allora di interpellare Glenn Green e Scott Hollister, dell'Università del Michigan. I due accettarono di collaborare.
Dalla Tac della trachea e dei bronchi del bambino, sono stati ricavati i dati utili per disegnare al computer una protesi per sostituire la parte collassata: un tubicino che si sarebbe adattato perfettamente all'albero bronchiale di Kaiba, ma capace di allungarsi seguendo la respirazione e la crescita del piccolo, grazie alla struttura simile a quella del tubo di un aspirapolvere. Hanno scelto di stampare il dispositivo in policaprolattone, un polimero che si degrada nell'arco di tre anni, ritenuti sufficienti perché i tessuti del bambino ricrescessero, assumendo la forma del tubicino e rimodellandosi così in una trachea. L'impianto è stato eseguito il 9 febbraio 2012 al Mott's Children's Hospital dell'Università del Michigan.
Dopo tre settimane Kaiba ha ricominciato a respirare autonomamente, è stato dimesso dall'ospedale e da allora non ha più avuto crisi respiratorie. «Il caso di Kaiba è eccezionale, ma dimostra che la possibilità di rimpiazzare pezzi di cartilagine, ossa o semplici elementi tubolari con strutture ottenute con la stampa 3D è davvero dietro l'angolo» riprende Ambrosio. «Dal punto di vista anatomico, infatti, questi oggetti sono meno complessi degli organi interi».
Printed in Italy. I metodi sono diversi: si va dalla realizzazione di protesi di materiali biocompatibili, come per Kaiba, a quella degli «stampi» per realizzarle. E’ questo il processo usato per ottenere un orecchio umano, dai medici del Weill Cornell Medical College e dai bioingegneri della Cornell University di New York. Hanno realizzato con la stampa 3D uno stampo della forma dell'orecchio, basandosi su immagini del padiglione dei pazienti. Poi hanno riempito questa forma con collagene e hanno aggiunto cellule della cartilagine: nell'arco di tre mesi, le cellule hanno prodotto la cartilagine che ha sostituito l'impalcatura di collagene e dato forma a un orecchio, utilizzabile per interventi di chirurgia ricostruttiva. Lo stesso Ambrosio, negli anni scorsi, ha coordinato due progetti internazionali sulla cartilagine. «Nel primo abbiamo realizzato dei dischi intervertebrali, i cuscinetti che si trovano fra le vertebre, che potrebbero essere utili ai pazienti con ernie del disco o altre lesioni della colonna» spiega il ricercatore. «Abbiamo usato il policaprolattone, che riproduce bene le caratteristiche della fibrocartilagine che compone la parte più periferica dei dischi, e al centro abbiamo inserito cellule staminali e condrociti, che dopo qualche tempo si sono differenziati in cellule simili a quelle che compongono il nucleo dei dischi intervertebrali». Nel secondo progetto, realizzato con gli Istituti Ortopedici Rizzoli di Bologna e il Policlinico di Vienna, sono stati stampati dei menischi. «Li abbiamo sperimentati su animali e hanno funzionato molto bene» racconta Ambrosio. E un terzo studio ha riguardato l'osso. «Con policaprolattone e fosfati di calcio abbiamo realizzato un metatarso del piede, con caratteristiche sovrapponibili a quelle dell'osso naturale. Il prossimo passo sarebbe provare le protesi su pazienti e stiamo cercando fondi e partner».
Mandibola nuova. Per sostituire parti di scheletro, alcuni gruppi hanno invece scelto di usare materiali che non hanno nulla di biologico, ma che sono comunque in grado di svolgere la funzione dell'osso. Nel 2011, sono bastate poche ore per stampare una mandibola in titanio, per una donna di 83 anni che aveva perso la sua a causa di un'infezione cronica dell'osso. La protesi, ricoperta di ceramica per evitare il rigetto, è stata realizzata dalla belga LayerWise, e pesa poco più dell'osso originale. Per impiantarla ci sono volute quattro ore: un intervento di chirurgia ricostruttiva sarebbe durato almeno 20. Pochi giorni dopo la donna poteva già mangiare e parlare.
di Margherita Fronte.